Sarebbe difficile negare gli stretti rapporti che il ritratto, sin dalle sue antiche origini, intrattiene con la magia. L’atto del retrahere – del «trattenere», per esempio, attraverso la simbolica riproduzione di una copia – racchiude nella sua polisemica origine latina anche il significato di «salvare». Un ritratto, infatti, ha il miracoloso potere di rendere presente chi non c’è, salvando la sua immagine dalla morte, dall’oblio.
Proprio in questo consiste il suo magico effetto, la sua iperbolica sfida: in un illusorio prodigio che duplica il modello, che crea un sostituto in grado di rappresentarlo. Si tratta, insomma, di rendere visibile l’invisibile. Non solo perché il doppio fa le veci del modello, ma soprattutto perché il ritratto consente di nascondere e mostrare nello stesso tempo. La riproduzione può talvolta farci vedere ciò che non riusciamo a vedere nella realtà, ci mostra ciò che si nasconde all’interno, nelle pieghe più profonde dell’anima.
Può dare “volto” ad una interiorità celata. Come se la rappresentazione della realtà potesse essere, talvolta, più eloquente della realtà stessa. I venti ritratti di Gabriel García Márquez, che il Maestro Franco Azzinari ci propone in questo catalogo, stimolano una riflessione sull’atto del ritrarre e sugli effetti che le varie espressioni dipinte potranno provocare nel modello e nel pubblico che visiterà la mostra.
2.Le soledades di García Márquez.
Proviamo a immaginare l’incontro di Gabriel García Márquez con i suoi venti ritratti. Non stiamo parlando genericamente di uno scrittore. Ma di uno dei più grandi narratori del Novecento. E soprattutto di un romanziere che ha saputo dipingere con le parole, che ha fatto coincidere la sua stessa poetica con l’arte del ritratto (fantastico o realistico, poco importa), disegnando abilmente con la penna straordinari personaggi e paesaggi indimenticabili. Di fronte ai venti García Márquez raffigurati nelle tele di Azzinari, probabilmente il grande romanziere non potrà fare a meno di cogliere una prima fondamentale contraddizione; la stessa che esprime egregiamente Giovan Battista Marino nei versi in cui commenta il suo ritratto dipinto dal Caravaggio: Vidi, Michel, la nobil tela, in cui Dala tua man veracemente espresso Vidi un altro me stesso, anzi me stesso, quasi Giano novel, diviso in dui. Ves, Miguel, la noble tela, en donde Por tu mano verdaderamente expresado Ves a otro mismo yo, es más: a mí mismo casi un nuevo Jano, dividido en dos.
Un ritratto presuppone una doppia figura, mostrando la confusione che si crea tra modello e copia. Rappresenta, nello stesso tempo, ciò che determina l’identificazione e ciò che ne costituisce lo scarto. Mostra come l’identità e la differenza alludono a una mimesi che non può essere una perfetta mimesi. Nel quadro è ritratto García Márquez: ma quel ritratto, pur rassomigliandogli, non è García Márquez. È piuttosto un García Márquez visto da Azzinari. Ma questo effetto illusionistico si moltiplica all’infinito se ci si trova in una sala dove venti ritratti di García Márquez circondano il García Márquez in carne ed ossa. Il modello, come in un gioco di specchi, si riflette nelle sue copie. Un dispositivo magico, un’iperbole che potrebbe disorientare chiunque. Non però l’autore di Cent’anni di solitudine. Spetta a lui il geniale racconto dell’epica fondazione di Macondo e della storia circolare della famiglia Buendía. Nessuno più di lui ha saputo combinare – nelle venti sezioni del romanzo, evocate probabilmente da Azzinari nella sua scelta di dipingere proprio venti ritratti – la ripetizione dello stesso con la differenza. Ogni Aureliano sembra essere una copia del precedente: guidato dalla fantasia e attratto dal mistero, si tuffa con grande passione e con intransigenza in progetti irrealizzabili. Mentre ogni José Arcadio si abbandona facilmente agli istinti ferini mostrando doti fisiche fuori dall’ordinario. Ma, nello stesso tempo, ogni Aureliano e ogni José Arcadio non possono essere ridotti a pura copia, a immagine passiva del precedente. La loro serialità presuppone anche delle specifiche differenze che troveranno poi un simbolico rovesciamento nello scambio dei due gemelli, José Arcadio Segundo e Aureliano Segundo: il primo, nonostante il nome, finirà per assumere la personalità degli Aureliano e il secondo quella dei José Arcadio.
Altro ci sarebbe da dire sugli stessi due gemelli che, a loro volta, esemplificano, nel loro essere l’uno doppio dell’altro, le due linee ereditarie un tempo unificate, come ha notato Cesare Segre, nella mitica figura del patriarca José Arcadio Buendía. Lo stesso discorso vale per i grandi temi che ricorrono continuamente nell’intera opera di García Márquez: la morte annunciata, il funerale, la memoria, l’amore contrastato, l’eros, la guerra civile, la ribellione, la profezia, l’ostinazione, il fantasma, il sogno, il tempo circolare si presentano come motivi uguali e diversi, evocando, volta per volta, la ripetizione e il suo superamento attraverso uno scatto inedito, improvviso, originale. Anche quei personaggi che potrebbero apparire identici, senza celare l’evidente rapporto con quelli che li hanno preceduti, assumono però successivamente un nuovo e singolare significato. Ma c’è di più. Nessuno meglio di Gabriel García Márquez ha saputo dipingere la soledad. Perché il filo rosso che lega tutti i personaggi si identifica proprio con il dramma psicologico della soledad. Ancora una volta, però, il grande narratore opera uno scarto: la soledad si moltiplica e si rifrange in una serie di specifiche soledades, di cui ogni singolo personaggio si fa portatore, testimone, interprete. Ritorna anche in questo contesto la dialettica tra modello e copia, identità e differenza.
La ripetizione riesce a dire ogni volta una cosa diversa. Adesso potrebbe sembrare più chiaro il contrasto simbolico tra realtà e apparenza che nel ritratto trova un’evidente esemplificazione. Eseguito sulla tela col pennello o sulla carta con la penna, un buon ritratto non può ridursi a passiva riproduzione del modello. Gabriel García Márquez ci ha insegnato che spesso gli occhi della mente vedono molto più lontano degli occhi naturali e che la fantasia può rivelare aspetti assolutamente inediti della realtà. In altri termini: quale modello seguire per il ritratto? e, soprattutto, come distinguere la realtà dalla fantasia? Lasciando da parte l’etichetta di «realismo magico» (per la prima volta utilizzata dal critico tedesco Franz Roh in un ambito legato alla pittura) e i relativi dibattiti che ne hanno accompagnato la fortuna e la sfortuna, resta evidente in Marquez – come in altri grandi autori latinoamericani, tra cui mi piace ricordare Carlos Fuentes – che la letteratura può raccontare ciò che la storia non è riuscita a raccontare. Proprio la negazione della realtà, la perdita della memoria collettiva, possono riemergere nell’ostinato ricordo di un singolo: spetta a José Arcadio Segundo conservare viva l’immagine della strage degli operai completamente cancellata dalla realtà storica. Solo attraverso la testimonianza di un Buendía, l’apparente fantasia diventa orma della verità, traccia di una violenza consumata nel più assoluto silenzio. Ciò che viene considerato un puro “racconto fantastico” ci parla invece, come tutta la storia di Macondo, di uno scontro di civiltà, dell’impietoso sfruttamento operato da una società bananiera ai danni di una popolazione inoffensiva, la cui protesta viene affogata nel sangue per poi essere definitivamente rimossa dalla pubblica memoria.
Nelle pagine del romanzo, insomma, si illuminano di nuova luce episodi che dalla guerra civile dei mille giorni (1899-1902) arrivano fino all’eccidio dei lavoratori di Ciénaga (1928). Non a caso l’ostinata preoccupazione per la memoria assume, in maniera ossessiva e con significati diversi, un ruolo vitale non solo in Cent’anni di solitudine, ma anche in tantissime altre opere di Gabriel García Márquez.
3. García Márquez visto da Azzinari: il pittore e il modello.
Dopo questa necessaria premessa, adesso sarà più agevole avvicinarci al punto di vista del pittore. Pur essendo nato in un piccolo paesino albanese della Calabria, Franco Azzinari è cittadino del mondo. La necessità lo spinge quattordicenne ad abbandonare San Demetrio Corone per intraprendere una serie di viaggi che lo porteranno in Estremo Oriente, negli Stati Uniti, in Brasile e a Cuba alla ricerca di culture e civiltà diverse. Proprio nell’isola caraibica, Azzinari si lancia sulle tracce del celebre scrittore Ernest Hemingway. Ritrae il pescatore Gregorio Fuentes – ispiratore del personaggio Santiago ne Il vecchio e il mare, morto nel 2001 all’età di 104 anni – e una serie di altri compagni d’avventura frequentati dal premio Nobel statunitense.
Una vera e propria ricostruzione documentaria, fatta di uomini e di paesaggi, che condurrà l’artista a ritrovare Hemingway perfino sulle spiagge del Kenya. Tra le relazioni intrecciate nel milieu cubano, Azzinari ha modo di conoscere e frequentare anche protagonisti del mondo politico e culturale: dipinge ritratti del líder máximo, Fidel Castro, e di altri personaggi di spicco, come il celebre produttore di sigari Alejandro Robaina e il grande musicista Compay Segundo, quest’ultimo reso poi famoso in Europa dal film di Wim Wenders, Buena Vista Social Club. All’interno di questo contesto, tutto racchiuso nel perimetro dell’isola caraibica, si collocano gli incontri con Gabriel García Márquez. E proprio nel 2010 prende forma il progetto che trova la sua concreta realizzazione in questo catalogo e nella mostra, il cui vernissage è previsto per il 4 dicembre 2011 a L’Avana, nella splendida villa della Fondazione del Nuevo Cine Latinoamericano.
Venti ritratti in cui è possibile reperire diverse «Espressioni di Gabriel García Márquez» (come recita l’eloquente titolo dell’esposizione). Anche dal punto di vista del pittore ritornano gli stessi interrogativi: quale García Márquez ritrae Franco Azzinari? Ha riprodotto l’immagine fedele del modello in posa? O ha dipinto con gli occhi della mente il “suo” García Márquez, quello conosciuto tra le pagine dei suoi splendidi romanzi? Che cosa veramente la copia è riuscita a catturare dell’originale? Se è difficile offrire risposte certe, non è impossibile però rintracciare nelle tele alcuni tratti essenziali della poetica del grande scrittore latinoamericano. Innanzitutto l’onnipresenza della natura. Siamo di fronte a ritratti in cui il volto è sempre immerso in un paesaggio che sembra legarsi perfettamente alle diverse espressioni dello scrittore: il mare, i prati, le nuvole, il cielo – ma anche il semplice scorcio di un giardino e di un palazzo – avvolgono il suo viso in sintonia, o in opposizione, con i sorrisi e con gli sguardi malinconici e riflessivi. Finanche negli interni, quando García Márquez appare comodamente seduto su una poltrona, la natura riafferma il suo primato: ora prende forma (finzione nella finzione) in un quadro posto sullo sfondo, ora nei disegni di un catalogo che lo scrittore stringe tra le mani. Certo, questa tecnica non è una novità nella storia del ritratto (si pensi, tra i tanti, alla campagna di Urbino inscritta nel celebre volto di Federico da Montefeltro dipinto da Piero della Francesca).
E non lo è neanche per chi conosce i lavori di Azzinari (in cui frequentemente il ritratto emerge da un paesaggio). Ma resta però la sensazione che dietro questa ri-petizione ci sia anche la precisa volontà di rappresentare il fondamentale incontro di García Márquez con i luoghi, con la natura. La presenza della natura nei venti ritratti non può non evocare le bellissime pagine dedicate da García Márquez alle descrizioni dei paesaggi, delle foreste, delle paludi, dei diluvi, del vento, dei fiumi, dei fiori, degli alberi, degli animali, degli insetti, delle farfalle e finanche degli odori che arrivano persino a fondersi con gli stessi personaggi, diventando parte espressiva della loro personalità (si pensi, come ha notato Cesare Segre, a l’ «olor mordiente» di Melquíades, a l’ «olor de humo» di Pilar Ternera o a l’ «hálito de espliego» di Pietro Crespi). All’odore delle mandorle amare, che Juvenal Urbino collega al destino degli amori contrastati, è dedicato lo stupendo incipit dell’Amore al tempo del colera, mentre il profumo di gelsomino trasuda dalle pagine de La hojarasca.
Così come resteranno indimenticabili le pennellate con cui lo scrittore ha raccontato Macondo o i vari, e talvolta anonimi, paesini sempre presenti nelle sue opere. Sarebbe veramente difficile capire la narrativa di García Márquez ignorando il ruolo decisivo della natura, della geografia, dei luoghi. Ignorando che proprio nei dettagli più legati alla dimensione localistica si rispecchia, invece, oltre alla realtà dell’America latina, una proiezione straordinariamente universale.
Lo stesso uso che Azzinari fa dei colori pastello potrebbe richiamare le tinte forti che caratterizzano la scrittura di García Márquez: le tonalità accese delle sue iperboli, l’incandescenza delle sue metafore e la sorprendente gamma cromatica dei suoi aggettivi. Ma potrebbe anche alludere alla vivacità delle sue sanguigne descrizioni, al suo fare a pugni con le parole, all’uso volutamente eccessivo dell’ipotiposi, capaceì di rendere viva agli occhi del lettore la folla di personaggi, soprattutto marginali, che popolano i suoi romanzi: prostitute, pagliacci, zingari, bagatti e negromanti di ogni sorta. Potrebbe, infine, esplicitare l’inno alla vita che – nonostante le tonalità fosche di morti e di sciagure, di uragani e di devastazioni – emerge prepotente nei gesti e nelle azioni più umili.
Altre considerazioni sul rapporto tra il García Márquez ritratto e il García Márquez scrittore, potrebbero venir fuori dagli aforismi che campeggiano in alcune tele, richiamando aspetti della filosofia che hanno sempre ispirato la vita e l’opera dello scrittore: «hay que ser infiel, pero nunca desleal» o «la vida no es la que uno vivió, sino la que uno recuerda y cómo la recuerda para contarla».
4. I ritratti di García Márquez e il suo pubblico.
Nelle battute finali sarà anche legittimo chiedersi come reagiranno i lettori di García Márquez alla vista dei suoi venti ritratti. Cercheranno di verificare la somiglianza, la perfetta corrispondenza tra copia e modello? O cercheranno di “riconoscere” in quei venti volti dipinti da Azzinari il “loro” García Márquez, il romanziere che hanno amato e che li ha invitati a viaggiare con lui nelle pieghe dell’anima? Anche in questo caso è difficile offrire risposte. Ormai da tanti anni, Gabriel García Márquez conduce una vita lontana dai riflettori, dagli obiettivi delle telecamere e degli apparecchi fotografici, dagli appuntamenti mondani, dai festival, dai congressi, da ogni occasione pubblica. Come Aureliano Buendía, dopo essersi speso in tante battaglie civili e culturali, da un po’ di anni lo scrittore vive rinchiuso nel suo “laboratorio”, muovendosi esclusivamente nel cerchio ristretto dei suoi affetti e dei suoi amici più intimi.
E questo è accaduto non solo per la lotta che, corpo a corpo, ha coraggiosamente combattuto contro la sua malattia, ma soprattutto per difendere la sua vita dalla fama. Imparare a convivere con il successo non è cosa facile. Giorno per giorno si corre il rischio di perdere la propria vita, di non esserne più padroni, di abbandonarsi a un vortice che lentamente ci espropria di noi stessi. Non a caso García Márquez ha scelto di ricorrere alla soledad – alla sua soledad tra le tante soledades – per preservarsi, per proteggere la sua esistenza, per salvaguardare la sua intimità.
Per evitare che occhi indiscreti violassero ogni pudore, lo sorprendessero (per riprendere le sue stesse parole) «in mutande». E lo ha fatto, probabilmente, ispirandosi ai suoi personaggi. Miracolo della letteratura: i personaggi sono creati dagli autori, è vero; ma gli autori, a loro volta, come suggerisce Bruno Arpaia, possono anche identificarsi con i propri personaggi fino a imitarli nei gesti più umili della loro quotidianità. Non so fino a che punto i venti ritratti potranno veramente squarciare il velo del silenzio e della discrezione che circonda la vita di Gabriel García Márquez. Ma so per certo che l’immaginazione di Franco Azzinari non ha giocato un ruolo marginale. E proprio alla fantasia, il lettore-spettatore dovrà ancora ricorrere per penetrare con occhio indiscreto nel “laboratorio” dello scrittore. Vederlo seduto in poltrona – come il patriarca José Arcadio Buendía o come il bambino di Baudelaire innamorato di atlanti e di carte geografiche, illuminati dalla luce di una lampada – mentre usa mappe e «strumenti di navigazione» per viaggiare in «mari incogniti», per «visitare territori disabitati», per «allacciare rapporti con esseri splendidi» senza «bisogno di lasciare il suo laboratorio».
O coglierlo di sorpresa, mentre nel suo giardino, da solo, sorveglia di notte il «corso degli astri». O scorgerlo mentre medita sul fatto che «il segreto di una buona vecchiaia non è altro che un patto onesto con la solitudine». O, meglio ancora, immaginarlo, sempre nel chiuso della sua stanza, a scrivere pagine di romanzi per poi disintegrarle, come il «coronel» Aureliano fabbrica e distrugge i suoi pesciolini d’oro, o Amaranta tesse e disfa il suo sudario. Proprio nell’apparente inutilità di questo lavoro, forse, è possibile intravedere la gioia della creazione e l’ “inutilità” stessa della letteratura, la sua essenza, lontana da qualsiasi utilità immediata, da qualsiasi profitto a breve termine.
Probabilmente, all’interno di questo contesto va collocata la provocazione lanciata da García Márquez in un’intervista a Ernesto Schóo: «Non parlo mai di letteratura, perché non so che cos’è, e in più sono convinto che il mondo sarebbe lo stesso senza di lei». Proprio questa inutilità, nello stesso tempo, potrebbe mostrare ancora meglio, per contrasto, il primato delle leggi del mercato e del guadagno – splendidamente descritto nella storia di Macondo – che ormai domina il nostro mondo a tal punto da suscitare disprezzo per la cultura e per quei saperi ritenuti improduttivi. Fuori da questo scenario sarebbe difficile capire perché soprattutto alla letteratura, a quel lusso ritenuto inutile, spetti – malgré elle – il compito di alimentare la speranza, di trasformare la sua inutilità in un utilissimo strumento di resistenza alla barbarie del presente, in un immenso granaio dove preservare gli avvenimenti ingiustamente destinati all’oblio. Novello Melquíades, García Márquez sa che la morte ci insegue dovunque, «annusandoci i pantaloni» e che «l’unghiata finale» prima o poi arriverà.
Ma sa anche, forte dell’esperienza di Aureliano Babilonia, che leggere il verso finale della pergamena significa pre-vedere non solo la fine della storia ma anche la fine della vita. Forse, solo dopo aver letto quel fatidico ultimo verso, quei venti ritratti potranno “catturare” la sua immagine per affidarla definitivamente alla memoria.
Della vasta bibliografia su Gabriel García Márquez, ho tenuto particolarmente conto dei seguenti lavori: – Bruno Arpaia, Barocco è il mondo, in Gabriel García Márquez, Opere narrative, a cura e con un saggio introduttivo di Bruno Arpaia, Milano, Mondadori, 2004, pp. XI-XLVI. – Gerald Martin, Vita di Gabriel García Márquez, Mondadori, Milano, 2011. – Cesare Segre, Il tempo curvo di García Márquez, in Id., I segni e la critica. Fra strutturalismo e semiologia, Torino, Einadi, 1969, pp. 251-295.