Questi ricordi sul grande Maestro e amico Ernest, nascono dalla piacevolezza del mio incontro con il pittore Franco Azzinari: la presentazione alla libreria Feltrinelli di un libro di Gore Vidal, lui presente in un magico giorno. Azzinari, artista dei colori, mi è venuto a parlare del suo amore per Hemingway, un amore riversato nei luoghi del grande scrittore che lui ha rivisitato, dove ha voluto vivere giorni e giorni per non dimenticare luci e profumi di una terra meravigliosa: Cuba. In quest’isola anche Azzinari è stato con i figli del vento e del sole, con la loro povertà, riuscendo a ritrarre i volti, le loro espressioni, i loro atteggiamenti, la ruvidezza e la nobiltà dei sentimenti.
II 25 marzo 1956 ero arrivata aII’Havana all’aeroporto Rancho Boyeros, dove avevo trovato a accoglierci Mary Hemingway che subito lo aveva definito il posto più simile all’ inferno che si potesse immaginare e mi aveva fatto vedere la stola di martore appena avuta in dono dal marito. Due anni prima Ernest Hemingway aveva ricevuto il premio Nobel e per la ressa dei giornalisti che volevano intervistarlo si era un po’ placata.
L’autista factotum Jean-Juan mi aveva portato alla Finca Vigía e soltanto allora Mary mi aveva detto che Hemingway sarebbe arrivato dai mari del Perù, dove era andato a girare le scene di pesca di The Old Man and the Sea (Il vecchio e il mare) perché in quella zona i marlin erano più grossi che nel mare di l’Havana: forse perché pensava che non ci avrei creduto. Invece l’indomani era arrivato: aveva interrotto la pesca e le riprese del film per venire ad accogliermi, un gesto per me indimenticabile, molto più generoso di quanto meritassi.
Era arrivato sulla sua barca di altura Pilar, alla lunga, larga spiaggia dorata, bordata di palme e di banani ed era sceso sul pontile pericolante che si spingeva nel tiepido mare immobile, avviandosi verso una capanna piantata a caso in mezzo all’insenatura; e mi aveva abbraccata con uno dei suoi hugs da cinematografo. Aveva come sempre i bermuda sorretti per miracolo da uno spago sotto lo stomaco teso dal Gin, e il viso incorniciato da una barba già, bianca..
Ernest Hemingway e Fernanda Pivano in giro per l’Havana
Non posso radermi, aveva detto come se avesse bisogno di scusarsi. Poi aveva detto: “Dopo la rispola di Venezia mi è rimasta la pelle malata”; ma sapevamo tutti che la pelle se l’era rovinata esponendola troppo a lungo al sole di alto mare. Mentre chiacchieravamo come se ci fossimo lasciati il giorno prima, Juan ci aveva portato alla Finca, lungo la strada tropicale trepidante di verde e croccante di sole fino al cancello con la scritta “Uninvited visitors will not be received”, e poi sul largo viale in salita bordato di mango e di ibischi, con la Little House (la Casita che faceva da foresteria a tanti ospiti), e la Torre bianca arredata da Mary dove Hemingway rifugiava la sua malinconia (tre piante, al piano terreno una trentina di gatti ciascuno col suo nome e, sopra, un piano dove Hemingway, secondo Mury, avrebbe lavorato tranquillo senza essere disturbato dai lavori della casa: in realtà lui preferiva scrivere accompagnato dal suono di aspira polveri e campanelli e discussioni spagnole dei domestici) e diluvi di fiori rampicanti, dal ronzio dei colibrì tra le grevi foglie rigonfie e in cima al viale la casa a un piano in stile coloniale spagnolo, non ancora diventata famosa nelle fotografie dei mass-media e negli sconsolati giri turistici della Cuba di Castro. Non so come è stata sistemata adesso la casa per quei giri turistici. Allora si entrava in un grande soggiorno con tre poltrone e un divano, 1o scaffali a sette scomparti per i dischi, tre paralumi, le teste imbalsamate di alcune vittime del safari africano, cinque André Masson, un Paul Klee e due Juan Gris; tutto immerso nella luce e negli odori dei tropici.
In fondo a questo grande soggiorno c’era la stanza da pranzo con il lungo tavolo marrone che Mary apparecchiava ancora con i bicchieri rossi comprati a Murano e sui due lati del soggiorno c’erano le due camere da letto, quella di Mary e quella di Hemingway, con un vano per la scaffalatura per i suoi novemila libri e una dozzina di grossi cassetti per le fotografie e la corrispondenza; accanto al letto un enorme tavolo coperto di boccette di medicine (È un po’ ipocondriaco, diceva Mary sorridendo) e di cumuli di lettere, a una parete la famosa Faltoria di Mirò e appoggiata su uno scaffale una Natura morta di Braque (rubata più tardi, ha raccontato Mary, da due ispettori del governo cubano, mentre Hemingway era ricoverato nella clinica Mayo), lo scaffale inclinato con la macchina da scrivere portatile e manuale sulla quale aveva scritto in piedi, a Cuba, il romanzo di Venezia ArossTheNue and lnto the Treu (Di là dal fiume e tra gli alberi) e The OId Man and The Sea.
La mattina presto si andava in cucina, dove Hemingway arrivava da una passeggiata nei suoi 1.6 acri di campi (pochi per uno che aveva cambiato la faccia della narrativa americana e europea), vestito col solito paio di bermuda sorretti da uno spago, un berretto di tela bianca, grossi sandali da contadino e un bastone nodoso (forse un ramo d’albero) che lo faceva sembrare un pastore omerico.
Azzinari ritrae Patrick Hemingway nella sua dimora a Bozeman – Montana USA
Si aggirava per la cucina con una indolente per non attirare l’attenzione di Mary e appena lei girava gli occhi prendeva dall’enorme frigorifero i pezzi di pesce più prelibati pescati il giorno prima sulla Pilar per darli alla quindicina di gatti che lo circondavano (ne aveva una trentina al piano terreno della Torre). Mary se ne accorgeva benissimo, ma faceva finta di niente, secondo la grande tecnica che le ha permesso così a lungo la convivenza con lui. La seta si cenava in soggiorno, ciascuno con un suo vassoio preso da una grande rastrelliera fatta costruire da Mary in mesi di lavoro col “falegname di casa”, e ciascuno col sandwich che si era scelto. C’era il problema della frutta,l’unico vizio mediterraneo al quale non sapevo ancora sottrarmi. La prima sera Hemingway era andato in cucina a cercarmi una mela e mi aveva detto solennemente: Ci sarà sempre una mela per te in questa casa, Figlia. Sedeva sempre sulla stessa poltrona e ai piedi gli stava Black Dog, il suo cane preferito che lo seguiva dappertutto e che Hemingway guardava con vigile tenerezza, mentre il viso gli era percorso da quelle sue ombre di disperazione presaghe di morte. È molto vecchio, diceva sottovoce, e puzza, diceva. “Ma a te non importa che puzzi, vero?, “No, certo’rispondevo accarezzando Black Dog; e Ernest Hemingway, col suo tipico sarcasmo: .Don’t be so Christian, Daughter, diceva sorridendo col falso sorriso “da duro” piegato da un lato. Di giorno stavamo seduti all’aperto sui gradini bianchi un po’ sgretolati che univano la casa al viale; Mary doveva farli restaurare ogni anno (chissà se qualcuno li ha restaurati in questi decenni) e parlavamo, parlavamo, parlavamo) delle sue pene d’amore e degli amici veneziani e del premio Nobel che gli avevano dato due anni prima e di Black Dog che stava per morire e dei suoi problemi con tutti quegli editori nel mondo e tutti quei traduttori e tutte quelle lettere che riceveva (due, tre sacchi da farina al giorno, che restavano lì al fondo dei gradini bianchi un po’ sgretolati).
Ogni tanto ne prendeva qualcuna, frugava nei mucchi cercando quelle coi francobolli italiani perché gliele leggessi come facevo a Cortina. In quei giorni dai mari del Perù erano arrivati anche Spencer Tracy, protagonista di The Old Man And the Sea e Katherine Hepburn, curiosi di vedere questa sconosciuta che aveva causato l’interruzione delle riprese del film, lei vestita con un abito bianco da uomo, lui ubriaco di brutto, con Hemingway che cercava (prima di ubriacarsi anche lui) di calmarlo e mi aveva detto: Non gli badare, non regge l’alcool. È perché si ubriaca di Dubonnet.
Per lui era un’accusa terribile. Perché se era un sofisticato intenditore di cibi super raffinati, proibiti ora dalle diete (e insieme amava i cibi super tradizionali e un po’ populisti), era poi un vero specialista nelle più raffinate combinazioni alcoliche, le innumerevoli qualità di champagne o di Daiquiri cubani: al Floridita, il suo locale preferito vicino a L’Havana, lo onoravano facendogli dei cocktails che portavano il suo nome, per esempio il Papa Double, che consisteva nel Daiquiri senza zucchero; ma a volte, quando era solo nel silenzio profumato della sua Finca cercava una bevanda inventata dal suo fedele chauffeur tutto fare: gin allungato con acqua di cocco. La troupe del cinema arrivata dal Perù aveva subito cominciato a incalzarlo a riprendere il lavoro: Spencer Tracy non mi aveva perdonato di non essermi ubriacata con lui e forse eccetera; così avevano tutti deciso di partire.
La sera prima Hemingway mi aveva fatto vedere, emozione non verbalizzabile, gli album dei suoi Valentine di ragazzo conservati dalla madre e riposti nei grandi cassetti al fondo della biblioteca, mentre Mary insisteva per portarmi invece a sentire il batterista nero Chori, che suonava a torso nudo, trasognato di chissà quale droga, i suoi sei tamburi, con una grande croce sul petto , tncantando col suo ritmo i visitatori intontiti.
Quel viaggio a Cuba è una delle emozioni più care al mio cuore.
Oggi mi commuove pensare all’artista Azzinari che è andato proprio a Cuba e in Kenya, le due terre dove Hemingway trovava la forza dalla semplicità, dalla realtà e dalla purezza della natura e degli abitanti. Appare improvviso di nuovo il golfo di Cojimar, come il richiamo di una località magica, dove il flamboyant regna incontrastato, proprio la pianta amata da Hemingway al punto da averne ben 26 attorno alla sua casa in S. Francisco de Paula “Finca Vigia”: 26 alberi portafortuna con i fiori rosso fuoco ad esaltare gli orizzonti di ogni terra, di ogni confine. Grazie Azzinari. Grazie per aver inseguito i sogni di Mr. Papa e di raccontarceli con i tuoi colori violenti e sanguigni, con la tua passione commossa ed emozionata sorretta dal grande amore per lo scrittore che i fiori rosso fuoco hanno accompagnato negli spazi profumati dell’eternità.